Sapessi com’è strano sentirsi… confinati nel quartiere in cui si abita. In fondo, anche la città degli anni Sessanta di Ornella Vanoni, quella in cui gli innamorati erano costretti a darsi appuntamenti in “un posto impossibile“, riservava straordinarie sorprese. Certo, Milano era “senza verde, senza cielo“, ma almeno si stava “fra la gente, tanta gente…”. Adesso, invece, la gente sembra sia stata cancellata, come ci trovassimo in una scena dell’Esercito delle 12 scimmie, film di fantascienza post-apocalittico oggi di grande attualità. Eppure, ad armarsi di un po’ di sana ribellione all’imposizione del triste paesaggio di monitor e divani, muniti di bavaglio d’ordinanza e della voglia di scoprire sorprendenti finestre di storia e cultura nel quartiere in cui si abita, si può ancora uscire di casa e inventare un pomeriggio autunnale che riesce a stupirci. È la vita che si difende, un segno tutt’altro che trascurabile. Ne nasce una passeggiata tutta da raccontare, costellata di tante e diverse memorie di resistenza, da quella agli austriaci fino alla Val di Susa, passando per le torture e le fucilazioni delle brigate fasciste. Capita che le prove di resistenza (anche mentale) alle restrizioni della libertà, grandi o piccole che siano, a volte prendano le strade più impensate. Dalle barricate ai vialetti nei parchi (ci si perdoni l’avventuroso paragone), però, ciò che cambia la musica è forse in primo luogo la capacità di non rassegnarsi, di non fare l’abitudine alle “nuove” normalità che ci vengono proposte o imposte. In questo difficile esercizio, non si dovrebbe neanche star lì a ricordarlo, non c’è molto di più insensato e rovinoso del distanziamento anche dalla storia che ci ha portati fin qui

Oggi il clima è mite, si affaccia anche il sole. I colori degli alberi che tra poco saranno nudi è bellissimo. Anche gli sterrati e i prati sono belli, coperti da tappeti di foglie che prima di morire offrono il loro ultimo fascino in quella combinazione di giallo intenso, giallo pallido, rosso vermiglio e rosso bordeaux, marrone chiaro e scuro e qualche striatura di verde che ancora resiste. Così, staccandomi dal computer, dopo un’occhiata a grandangolo dal mio mini balcone, decido di fare un giro nella periferia milanese in cui vivo.
Il piccolo parco giochi sotto le mie finestre è vuoto, immagino lo siano anche i giardini. Esatto, vuoti. Anche il vialetto che porta alla stazione di Villapizzone lo è. Le pallonate che solitamente rimbombano sul muro del campo giochi accanto alla vecchia chiesa sono scomparse da un bel po’. Decido di aggirare la stazione e scoprire qualcosa di più di questo quartiere che mi piace tanto ma che ancora conosco poco. Indosso il bavaglio d’ordinanza, anche se non credo che all’aperto sia utile, ma confesso che lo alzo sul naso solo quando vedo qualcuno a distanza. Guardandomi intorno capisco che oggi lo alzerò pochissime volte.
Sono stata quasi tutto l’anno all’estero ed è la prima volta che mi trovo a Milano sotto confinamento, cioè sotto quello che, per amore o per sudditanza verso la lingua dell’impero, viene chiamato lockdown. Mi dicono che se la polizia mi ferma devo davvero giustificare la mia uscita come disposto dai regolamenti governativi. Beh, non ho imparato a fare il pane in casa e sto andando a comprarlo. Basterà come giustificazione?
Non mi allontano dalla mia zona, sto distante da ogni vivente animale e mi avvicino solo ai viventi vegetali, se vedo qualcuno indosso il bavaglino, quindi tutto questo dovrebbe bastare. Giuro che la cosa m’infastidisce, ma mi dico “metti che serva davvero e che non sia un capriccio per soddisfare il desiderio di autoritarismo dei governanti e delle italiche divise”… allora sopporto il fastidio e mi adatto all’idea di dover dire una bugia visto che il pane in realtà non mi serve.

Passeggio lentamente per strade che non ho mai percorso e scopro che ci sono vecchie palazzine niente male, anche se una ripassatina d’intonaco qua e là ci starebbe bene! Lo stile dei balconi in ferro battuto, uno pseudo bugnato e le decorazioni architettoniche sopra le finestre mi fanno supporre che risalgano a più di un secolo fa e, francamente, le trovo molto più belle di parecchi palazzi e palazzine costruiti negli ultimi decenni del “900.
Della chiesa di Villapizzone, cioè la chiesa di San Martino, il cui gesto generoso è raffigurato nell’affresco sulla facciata, conosco un po’ le origini. Pare che la prima costruzione risalga addirittura a un millennio e mezzo fa, anche se la struttura attuale è molto più recente e ha solo poco più di 400 anni. Il nome del quartiere ha alimentato molte fantasie. Per qualcuno deriva dalla dicitura Villa Bezone risalente all’alto medioevo, per qualcun altro al nome del primo monaco, Attanasio Piccione, poi fatto santo, un greco vissuto nel VI secolo quando, appunto, fu costruita la chiesa. Per altri risalirebbe a un parroco che allevava i piccioni, che in dialetto meneghino se ho ben capito sarebbero i “pizzon” e vai con la fantasia!
Mi sono letta un po’ di roba su questo toponimo quando tre anni fa ho deciso che avrei preso la mia residenza in questo quartiere della periferia nord di Milano, però fino ad oggi non lo avevo girato nella parte più antica proprio dietro la stazione.
Mi trovo in via Fusinato. Arnaldo Fusinato. Un nome che ho in testa. Ma chi era costui? Potere di google, non faccio in tempo a completare nome e cognome che mi appare, proprio come uno squarcio nel cielo, mi appare un verso de “L’ultima ora di Venezia”! Ma ca…spita! Ma come ho fatto a non pensarci subito!? Il morbo infuria, il pan ci manca/ sul ponte sventola bandiera bianca.
Ecco, Fusinato era il poeta veneziano del Risorgimento! Beh questo è proprio il momento giusto per questa riscoperta.
Da ragazza la sua poesia la sapevo tutta a memoria e mi piaceva da morire recitarla con enfasi patriottica. Ricordo che la mia insegnante di lettere l’aveva derubricata, insieme a “Eran trecento” cioè La spigolatrice di Sapri di Mercantini a manifestazioni letterarie militanti, nobili quanto si vuole ma non degne di entrare nell’empireo della poesia. Ce le faceva studiare come si studia la poesia resistenziale e in quel senso ne riconosceva il valore, ma poi, quando parlava di poesia con la P maiuscola cambiava autori.
Oggi credo avesse ragione e, comunque, la forza e il desiderio di approfondire le ragioni del Risorgimento e in particolare i movimenti del 1848 contro gli austriaci nascevano di sicuro anche dal pathos che quelle rime riuscivano a trasmettere.
Arnaldo Fusinato non dedicava alla lotta solo la sua penna, ma aveva partecipato attivamente alla resistenza contro gli austriaci e quella poesia che mi commuoveva e che faceva commuovere chi mi ascoltava quando davo l’affondo vocale sul verso “Tre volte infame, chi vuol Venezia morta di fame!” e poi scandivo “viva Venezia, feroce, altera, difese intrepida la sua bandiera”, bene quella poesia è andata oltre Venezia e si è adattata ad altre resistenze di altri periodi storici ed anche di altri popoli. Questo gioco, che mi piace definire “di vasi comunicanti” e che si sviluppava durante l’adolescenza, era reso possibile anche dalla capacità di una docente, e di altri come lei, di collocare al posto giusto le diverse espressioni culturali.
Oggi, dalla cima della mia montagna di anni, credo di poter dire con ragionevole certezza che quando la scuola insegnando educa, la prima cosa che s’impara è il pensiero critico, quello che poi porta anche a fare collegamenti storici, geopolitici e sociologici. Distruggere la scuola, progetto che avanza da anni e che forse l’infame nuovo coronavirus aiuterà a portare a compimento, significa trasformare la cultura e il pensiero critico in sole “conoscenze e competenze” per le quali presto non servirà più neanche un docente umano. Questo pensiero mi gira per la testa mentre cammino per via Fusinato.

Mentre mi sforzo di ricordare altri versi de L’ultima ora di Venezia, mascherina abbassata perché non passa anima viva e fotocamera pronta a prendere qualche immagine che mi piace, i miei occhi si fermano sul numero civico 14. Sotto la targhetta del numero c’è una lapide. Poco sopra al numero c’è una corona d’alloro con fascia tricolore. Purtroppo ormai è il tramonto e poi l’incisione è un po’ sbiadita quindi devo avvicinarmi per poter leggere cosa c’è scritto. Neanche il viso ritratto in foto si vede bene. Comunque leggo, “Al caduto per la libertà BALCONI CARLO nato il 13 – 1 – 1913 caduto in combattimento il 26 – 4 – 1945 in piazzale Baracca”. Mi colpiscono più cose. Mi colpiscono davvero, tanto che quasi quasi mi commuovo.
Un lampione stradale intanto si accende e sembra che si stia creando la scenografia adatta al mio pensiero che in questo momento decide di farsi racconto.
Le cose che mi colpiscono sono le strane coincidenze. Via Arnaldo Fusinato, imboccata per caso nel mio vagabondare, mi riporta al poeta e alla sua straziante poesia resistenziale, della quale alcuni versi si sono perfettamente adattati ad altre nobili resistenze che hanno occupato e occupano parte della mia vita. Come non legare, infatti, l’invettiva contro chi vuol prendere per fame la città già fiaccata dal colera, a situazioni simili in altri periodi storici e in altri paesi del mondo? E come non collegare quel “ramingo ed esule in suol straniero/ vivrai Venezia nel mio pensiero” alla situazione di tanti profughi, con alcuni dei quali io stessa collaboro da anni affinché i loro diritti vengano riconosciuti? E ancora, proprio qui, al n. 14 di via Fusinato, la lapide che ricorda chi, un secolo dopo l’insurrezione di Venezia, si batteva contro il nazi-fascismo! Altra cosa che mi colpisce è la data della sua morte. Ucciso un giorno dopo la data che convenzionalmente celebra la Liberazione. Grazie a santo google e santa wikipedia mi fermo sotto il lampione e faccio una rapida – non troppo rapida veramente – ricerca su Carlo Balconi. Scopro che faceva parte della divisione Redi, brigata Rocco. Un cecchino fascista lo ha ucciso quando ormai l’Italia tornava libera. Aveva l’età che ha oggi mio figlio.

Tramite santa wikipedia scopro il blog del figlio di un partigiano di Mercallo, lo stesso paese in cui era nato Carlo Balconi. Scopro che la sua famiglia si era trasferita a Milano e lui era cresciuto proprio in quella palazzina che a me era sembrata, ora dico giustamente, architettura di oltre un secolo fa. Scatto qualche foto, giro l’angolo e scopro che l’enorme scritta “NO TAV LIBERI” che si vede dal treno quando si arriva in stazione è proprio sulla facciata della palazzina in cui è cresciuto Carlo. Ho letto che Nicoletta Dosio è stata liberata e che però restano da liberare Dana e altri compagni arrestati perché difendono la Val Susa dall’opera devastante della “TAV”. Questa scritta quindi, ora è dedicata a loro. E’ sulla palazzina di chi è morto perché voleva l’Italia libera ed è stato ammazzato quando l’Italia tornava ad esserlo.
Riprendo la strada di casa. Penso all’ingiuria del destino che si diverte con così feroce ironia. Chissà quanti come Carlo sono stati uccisi a “giochi” conclusi. Penso al dolore della madre di Carlo. Avrà avuto ancora sua madre o la guerra l’aveva già rapita? Mi immagino una conversazione con questo ragazzo di tanti anni fa, ucciso quando io non ero neanche in progetto di esistere, che però ora è vivo nella memoria accanto alla mia vita reale. Mi piacerebbe chiedergli quali fossero i suoi rapporti con le compagne della sua brigata. Mi piacerebbe che mi parlasse della parte umana della sua battaglia insieme ai suoi compagni e alle sue compagne. E mi piacerebbe sapere cosa lo aveva mosso, più o meno trentenne, ad entrare nella Resistenza.
Poi gli chiederei cosa ricorda dell’influenza detta “spagnola” che quando lui aveva 6 o 7 anni ha falciato almeno 50 milioni di persone su circa 1 miliardo e mezzo di abitanti in tutto il mondo e poi, soddisfatta del suo sterminio, se n’è andata come niente fosse. E glielo chiederei anche per capire se trova corretto che venga paragonata alla covid-19 che su 7 miliardi e 500 mila abitanti della terra ne ha portati via – e speriamo sia sazia – 1 milione e 300 mila. E mi piacerebbe perfino chiedergli cosa pensa dell’Italia di oggi. Certo non gli chiederei cosa pensa della nostra classe politica per non vederlo rientrare di corsa nella tomba oppure prendere un mitra pensando che la Resistenza non sia ancora conclusa!

Mentre cammino immaginando un’inverosimile conversazione con quel ragazzo di cui ho appena scoperto il nome, non faccio più di 200 metri e un’altra targa su via Fusinato attira il mio sguardo. Anche qui leggo caduto per la libertà. Non aveva ancora vent’anni. Si chiamava Emilio Vecchia. Non c’è la sua foto. Lo immagino come uno dei miei ex studenti. Ma non faccio più di 50 metri che proprio dove via Fusinato s’immette in piazza di Villapizzone vedo altre due targhe e una corona di alloro che le sovrasta. Edoardo Rossi aveva 21 anni, sotto il suo nome è scritto martire della libertà. Gervasini Carlo ne aveva 23. Sulla lapide c’è scritta una frase che mi arriva come un pugno in faccia: “QUI FUCILATO l’8.2.1945”. Qui fucilato! Qui, dove io sto passeggiando godendomi il colore autunnale degli alberi. Qui!

In meno di trecento metri scopro che 4 ragazzi dell’età di mio figlio o dei miei studenti hanno perso la vita per la Libertà. Quindi in Villapizzone doveva esserci un nucleo della Resistenza, ma io lo scopro solo ora. Vorrei conoscere qualcosa di questi ragazzi. Mi siedo e tramite google cerco i loro nomi negli archivi dell’ANPI. Scopro qualcosa delle loro storie. Scopro che Edoardo era stato catturato dai tedeschi assieme ad altri compagni e che dopo tre giorni di atroci torture senza riuscire a cavargli nessun nome di bocca li hanno fucilati. Scopro che Carlo Gervasini ed Emilio Vecchia invece sono stati assassinati non da tedeschi ma da italiani come loro. Cioè, come loro per cittadinanza, non certo per scelte di vita. Carlo è stato assassinato “qui” da tre fascisti ed Emilio è stato torturato per un mese prima di essere fucilato dalle brigate nere.
Non ho più lo stato d’animo per immaginare impossibili dialoghi con questi ventenni vittime della furia nazista e fascista. Non è niente di nuovo, la storia la conosco. Ho martiri anche nella mia famiglia d’origine. Ma questa scoperta, qui, in questo quartiere di cui conoscevo solo i giardini, lo studentato della Bovisa e la storia della chiesa, mi è caduta addosso inaspettata e dolente.
Torno verso casa. Sto sul vialetto erboso, abbasso gli occhi e vedo che la natura, di questi confinamenti detti lockdown, sta godendo e sono bastati pochi giorni di parziale interruzione dell’agitarsi umano che, laddove c’era solo erba calpestata da uomini e cani, ora sono spuntati due magnifici funghi bianchi. Sembrano fieri di esistere. Li fotografo. Sì, perché magari domani non ci saranno più, qualcuno forse li espianterà oppure moriranno di morte naturale, perché ogni vivente è mortale! Ma se io li fotografo ne conservo la memoria e potrò rivederli nella loro grazia un po’ superba, quella che hanno ora, mentre li sto immortalando.
In questa passeggiata in solitaria solo due volte ho dovuto alzare la mascherina per l’avvicinarsi di sagome umane. Una passeggiata che mi ha fatto scoprire che a poca distanza da casa mia c’è la strada dedicata a un poeta combattente del Risorgimento e su quella stessa strada hanno vissuto due combattenti per la libertà ed altri due a pochi metri da lì.
Scoperte dovute alla cromatica dei dpcm che hanno reso “rossa” la Lombardia impedendomi di prendere il treno per la Capitale e portandomi così, per caso, a rendere omaggio a quattro dei tanti giovani che morirono affinché l’Italia tornasse libera.
Mentre sto ormai a pochi metri dalla mia casa mi vengono in mente le parole trovate addosso a un ventenne, scandinavo se ben ricordo, venuto a combattere in Italia e ucciso in combattimento. Un ventenne il cui nome di battaglia era Kim e che, ferito, aveva scarabocchiato su un pezzo di carta queste parole: “io non sono che una piccola cosa, magari ora morirò, ma ricorda che se un giorno potrai godere di uno stormir di foglie in libertà, un po’ sarà stato anche per me.”
Guardo gli alberi del vialetto e prima di entrare nel portone sorrido a Kim, ai due Carli, a Emilio, a Riccardo e a tutte e tutti coloro che mi hanno permesso di godere dello stormir di foglie in libertà. Quella “libertà ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta” come già ci aveva detto Dante e come sa chi seguita a considerarla bene supremo e non negoziabile. Anche a costo della propria vita.
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