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I sapori della via della seta

Fra le spezie e i colorati piatti della cucina afghana, uzbeka e persiana da Samarkand ogni giorno si parte per un lungo viaggio lontano seimila chilometri dall’Italia, che in pochi minuti supera i confini e racconta storie e sapori di popoli millenari. Samarkand – il cui nome richiama l’antica città dell’Uzbekistan Samarcanda e il viaggio di Marco Polo sulla Via della Seta – è il frutto di un’idea di cinque amici di etnia hazara. Ai grandi media e agli Stati più potenti del mondo non interessano gli Hazara, un tempo una delle comunità più numerose dell’Afghanistan. La prima persecuzione di questo popolo risale a due secoli fa, negli ultimi anni sono al centro dell’odio del regime talebano: migliaia di famiglie si sono rifugiate in Pakistan, ma il governo di Islamabad ha ordinato loro di abbandonare il paese. Qualcuno tenta di arrivare in Europa, nelle acque gelide di Cutro (foto) c’erano molti afghani. In quell’angolo di Oriente a Milano, Samarkand, ogni giorno si protegge il sogno e il sapore di un mondo diverso

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C’è un angolo di Oriente a Milano. È il ristorante Samarkand, a Corvetto, uno dei quartieri a sud ovest della città. Una volta entrati nel locale, il rumore del traffico e del caos cittadino sembrano essere solo un lontano ricordo. Fra le spezie e i colorati piatti della cucina uzbeka, afghana e persiana da Samarkand si parte per un lungo viaggio lontano seimila chilometri dall’Italia, che in pochi minuti supera i confini raccontando storie e sapori di popoli millenari.

ʺAl ritorno dei talebani al potere, ho dovuto lasciare il mio Paese. In Afghanistan sono rimasti mia moglie e i miei bambini: l’ultimo ha da poco compiuto un annoʺ. Yanis*, 34 anni, è andato via poco dopo la caduta di Kabul, che ad agosto 2021 ha visto andare via le truppe statunitensi per lasciare spazio a un passato costato vent’anni di guerra a un Afghanistan dilaniato da bombe e sangue. ʺHo raggiunto Islamabad, il Kuwait e poi Roma. Ora vivo in Lombardia e mi piacerebbe tanto migliorare l’italiano. Adoro l’Italia. Spero che presto la mia famiglia possa raggiungere l’Europaʺ dice Yanis versando del chai siyah – il tè nero bollente tipico della tradizione afghana – in un bicchierino in vetro. Dalla cucina, un gradevole aroma speziato si diffonde per la saletta dalle pareti decorate con mattonelle a fantasie dai toni pastello. Su una delle pareti invece, fra strumenti e mappe geografiche che parlano del Medio Oriente, ci sono gli scatti della fotografa afghana Zahra Khodadadi.

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ʺPregoʺ esclama Nur*, la cuoca, che sul tavolo, accanto a una ciotola di hummus – la nota salsa mediorientale fatta di ceci e tahina – poggia un cestino di pane Naan. ʺSono arrivata da poco in Italia. Qua vivevano già i miei figli, giunti dall’Iran per studiare medicinaʺ spiega questa signora dal volto gentile mentre si sistema il grembiule nero. Sorride, Nur, che per un attimo si ferma vicino al bancone della cassa dove è stato sistemato un samawar, la teiera tipica della Persia. ʺSamarkand è il frutto di un’idea condivisa insieme ad altri quattro amici di etnia hazaraʺ ricorda Amin Wahidi, regista, che vive nel Bel Paese dagli inizi degli anni 2000. Il nome Samarkand richiama l’antica città dell’Uzbekistan, Samarcanda, e si ispira al lungo viaggio compiuto da Marco Polo sulla Via della Seta; per secoli crocevia fra Europa ed Estremo Oriente di popoli e culture diverse. Proprio come avveniva su quel cammino, Samarkand riesce a essere un punto di incontro fra culture diverse: attraverso la tavola e non solo. ʺOggi il locale è gestito solo da Ashraf Barati. Se ho un po’ di tempo, vengo qui a dare una manoʺ, dice Wahidi. ʺSono arrivato in Italia nel 2006. Oggi vivo a Venezia e gestisco un B&B. Prima di trovare un’occupazione nel settore turistico, ho lavorato per sei anni come muratoreʺ aggiunge Asharaf Barati in una chiacchierata al telefono. ʺSamarkand è stato pensato anche come un’opportunità di lavoro sia per gli italiani, che per chi arriva da lontanoʺ, continua Barati. ʺQualche tempo fa hanno girato un film sulla mia vita, sai?ʺ aggiunge Barati. Behind Venice Luxury – un hazara in Italia è un documentario girato da Amin Wahidi, scritto da Basir Ahang e dall’attivista Nicole Valentini, che racconta la vita di Asharaf Barati ripercorrendo le difficoltà dei rifugiati in Italia e la storia del popolo Hazara.

Un tempo gli Hazara appartenevano a una delle etnie più numerose di tutto l’Afghanistan. La prima persecuzione di questo popolo risale al biennio 1891/1893, quando il sovrano pashtun Amir Abdur Rahman Khan sterminò oltre il 60 per cento della popolazione hazara, di religione musulmana sciita. Negli anni successivi la violenza contro gli Hazara non si è mai placata.

In Mille splendidi soli, il bestseller dello scrittore afghano Khaled Hosseini, sono ricostruite le sofferenze patite da chi appartiene a questa etnia, poi finita al centro dell’odio del regime talebano. Risale infatti al 1998 il massacro degli Hazara compiuto dai Talebani nell’area di Mazar-i-Sharif, quando muoiono tra le ottomila e le diecimila persone. L’ultima strage che ha colpito la comunità hazara risale allo scorso 30 settembre. Lo stato islamico ha rivendicato l’attacco kamikaze a un centro educativo nel quartiere Dasht-e-Barchi di Kabul – abitato prevalentemente da hazara – e ha ucciso trenta persone; soprattutto studentesse. ʺPiù che della mia storia, c’è bisogno di raccontare cosa sta succedendo in Afghanistan oggi; soprattutto alle donneʺ commenta Wahidi.

Richard Bennet, relatore speciale sull’Afghanistan per l’UNHCR, in un rapporto dello scorso anno apparso su Human Rights Watch, ha detto che il regime talebano ha normalizzato gli attacchi rivolti alla comunità hazara che ha portato a migliaia di morti. #StopHazaraGenocide è una campagna lanciata lo scorso anno dopo una bomba fatta esplodere a Dasht-e-Barchi, un quartiere a maggioranza hazara di Kabul. Nell’attentato sono morte più di trenta persone: le vittime principali erano ragazze. Negli ultimi mesi ci sono stati altri due attacchi contro la comunità Hazara. L’ultimo attacco rivendicato dall’ISIL (ISIS) risale all’8 novembre proprio nella zona della capitale afghana già colpita lo scorso anno. Questa volta il bilancio è stato di sette morti e venti feriti.

La comunità LGBTQI+ è in continuo pericolo; mentre la stampa è stata repressa in tutti i modi: media e canali di informazione contrari al regime sono stati cancellati. Giornalisti, attivisti, dissidenti e collaboratori degli Usa e del governo precedente sono stati arrestati. Molte di queste persone hanno subito torture ed esecuzioni sommarie. Per le donne, a cui è stato impedito l’accesso agli spazi pubblici, la situazione si è nettamente aggravata. Il regime talebano ha negato l’istruzione a tutte le bambine al di sopra dei dodici anni, mentre ha impedito che le donne potessero lavorare nelle Ong locali e internazionali, ad eccezione di quelle in ambito sanitario, alimentare ed educativo. Ciò ha profondamente danneggiato le condizioni socio-economiche del Paese, che secondo UNHCR registra oltre 28milioni di persone in grave crisi umanitaria. Per chi sopravvive ai kamikaze e ai cataclismi che hanno colpito il territorio negli ultimi due anni, la vita è davvero difficile. Quando il Mahram muore (l’uomo della famiglia con cui una donna ha un legame che non sia matrimoniale), le donne non hanno più alcun sostegno economico perché non possono lavorare.

L’assenza delle donne dai posti di lavoro ha creato un enorme vuoto nell’insegnamento. A scuola, i ragazzi non hanno insegnanti o seguono professori poco qualificati. Nelle classi, bambini e adolescenti subiscono punizioni corporali per l’abbigliamento indossati, il taglio dei capelli, l’uso del cellulare. Ciò ha destato grande preoccupazione nelle famiglie e ha contribuito all’abbandono scolastico di molti giovani. Gli studenti, anche quelli frequentanti, hanno paura di subire castighi e non guardano più con speranza al futuro ma vivono con ansia e depressione.

Dal 2021 si stima che milioni di afghani abbiano lasciato il Paese: 2,3 milioni di persone vivono oggi tra Iran e Pakistan. Dal 7 ottobre, però, il governo di Islamabad ha ordinato alle persone senza cittadinanza pakistana di abbandonare il Paese se non è regolarmente soggiornante sul territorio. Secondo diverse testimonianze, nelle ultime settimane, in tutto il Pakistan si registrano blitz della polizia che cerca persone prive di documenti. Nei raid effettuati dalle forze dell’ordine sono state rase al suolo abitazioni e si sono verificati abusi di vario genere, come il sequestro di beni e bestiame. I rifugiati raccontano che ad essere presa di mira è proprio la popolazione afghana e la comunità hazara. Da settembre 2023, almeno 20.000 persone sono state deportate dal Pakistan all’Afghanistan; mentre chi può cerca di abbandonare il Pakistan proseguendo il viaggio verso l’Europa. Un esodo forzato che dura ormai da anni e davanti al quale la comunità internazionale ha indossato un paraocchi. Lo stesso cammino intrapreso anche da decine di persone annegate nel naufragio di Cutro del 26 febbraio di quest’anno: in quelle acque gelide, a pochi passi dalla riva, a perdere la vita sono stati soprattutto afghani, tra loro c’era anche Torpekai Amarkhel, giornalista che si occupava dei diritti delle donne e Shahida Raza, capitana della nazionale di hockey femminile del Pakistan, di etnia hazara. Crisi economica, conflitti e sanzioni hanno distrutto l’Afghanistan dove oggi si contano 18,9 milioni di persone costrette a vivere in gravissime condizioni alimentari. E mentre ancora si piangono i morti del naufragio di Cutro, al largo delle coste greche si contano vittime e dispersi di chi, pieno di speranze, ha lasciato il proprio Paese distrutto in cerca di un futuro migliore in Europa.


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